Non sono una da regalare ad un nemico

Questa frase mi è stata detta spesso nell’arco degli ultimi trent’anni.

In effetti posso solo che confermare.

Il mio motto di vita è: “vivi e lascia vivere e non rompermi i coglioni”, ma purtroppo non è sempre rispettato.

La mia indole di bambina piccina, timida, introversa, biondina con occhi azzurri, ad un certo punto, è cessata di esistere ribaltando per sempre le sorti della mia vita.

So più o meno quando è iniziato il cambiamento (l’estate tra la terza media e la prima superiore), quando il mio istinto di sopravvivenza ha preso il sopravvento sulla paura di dire “no”, sulla sofferenza di essere bullizzata, e la mia testa bassa, il mio sguardo basso improvvisamente si è messo nella traiettoria di chi mi faceva soffrire: lì ho capito che potevo farcerla, che potevo rompere questo meccanismo di sudditanza.

Dagli occhi sono passata alla voce, dapprima piano piano, poi sempre più forte e la piccola Memole è diventata Ken il guerriero.

Ho smesso di avere paura, di farmi prevaricare, di farmi interrompere, di subire insomma.

Il rispetto è la base del mio modo di vivere, ma ne ho se tu ne hai per me, altrimenti ti elimino (non fisicamente) e vado avanti.

Ci sono battaglie da fare a colpi di vaffanculo, altre chiedendo il permesso di parlare, altre solo presenziando e manifestando pacificamente.

Ne ho fatte…un po’ come tutti e ne farò ancora, ma quello che non sopporto delle persone è chi fa lo scemo per non andare in guerra: tocca schierarsi, no?

Sarei potuta diventare aguzzino invece che difensore, ma è una scelta anche questa, e le sfide mi piacciono soprattutto se tutti abbandonano, perché sono troppo complicate, troppo difficili, troppo…

Perse tante, ma vinte molte.

A volte, è sufficiente essere solamente umani, mettersi nei panni di chi soffre e pensare: “Se al posto suo ci fossi stata io, mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi tendesse la mano?”

Niente medaglie, né corone…siamo tutti uguali, tutti umani.

Restiamo umani!

Perplessa…

Penso che tutti abbiamo visto e sentito la notizia dei contestatori ambientalisti che imbrattano con vernice arancione la facciata di mattoni di Palazzo vecchio a Firenze.

Solitamente agivano nei musei coprendo di resti alimentari quadri, o meglio, i vetri protettivi di quadri abbastanza famosi.

A me la protesta non violenta piace, per dare attenzione ad un problema come quello ambientale che ci coinvolge tutti.

Danni ai quadri non ce ne sono stati, ma colpire un edificio storico che risale alla fine del 1200 mi pare una grossa mancanza di stile.

Io, che arrivo dalla cultura hip hop so che nella disciplina del writing, aerosol art, graffiti, murales (chiamatela come vi pare) c’è una regola non scritta che tutti i writers rispettano: non si fanno pezzi o tag su edifici o monumenti storici, non si deturpano o rovinano in alcun modo.

Qui, parliamo di arte come forma di protesta assoluta verso la società, verso la diseguaglianze, verso i poteri forti: solo nel caso si voglia “infamare” un altro writer, si dipinge sopra ad un pezzo, si deturpa cancellandolo o si scrivono parole come “sucker”, “toy” o si usa la propria tag sul pezzo di chi si vuole colpire.

Qui, si sta esagerando, e per questo sono perplessa, perché sono d’accordo che la vernice è lavabile e molto probabilmente andrà via, ma non capisco ugualmente.

Per visibilità? Non c’è scritto nulla di significativo che possa essere protesta. Per me è solo un rovinare qualcosa di vecchio che sta lì da centinaia di anni.

Certo, è diventato virale, come le facce di chi ha commesso l’atto.

L’ho trovato un gesto dimostrativo fuori luogo e senza senso.

Comunicazione di servizio: concorso letterario “Io scrittore”

Anche quest’anno ci sarà “Io scrittore”, uno dei concorsi letterari più frequentati: il caricamento dell’incipit deve avvenire entro il 30 MARZO ALLE 18.00 sulla tua pagina personale.

Qui sotto lascio i due post che avevo pubblicato per spiegare come funziona.

https://lowprofile790041255.wordpress.com/2022/04/07/io-scrittore-concorso-letterario/

https://lowprofile790041255.wordpress.com/2022/06/22/io-scrittore-concorso-letterario-2-di-2/

In bocca al lupo a chi parteciperà!

La Cura

Cura: Impegno assiduo e diligente nel perseguire un proposito o nel praticare un’attività, nel provvedere a qualcuno o a qualcosa.

Quanta cura mettiamo in ciò che facciamo? Alcune volte, tantissima, ma è sempre dipeso da ciò o da chi curiamo.

Pensavo a tutta la cura che ho messo nei miei scritti, nel leggere un libro, nello stuccare mattoni, nel riporre la legna, nelle azioni che quotidianamente faccio.

Ciò che faccio mi fa sentire bene, adesso sto bene. Forse perché ho trovato una sorta di equilibrio interno che mi dà la forza necessaria per continuare a farlo.

Si chiama Amore.

Per quasi dieci anni mi sono presa cura di una persona anziana, smemorata, diciamo così, e aggressiva nei miei confronti: sono sua nuora, ed è stato devastante. Adesso è in una struttura dove è al sicuro, perché bisogna sempre riconoscere i propri limiti. Non è un parcheggio, ma un posto con grande giardino e infermiere che conosciamo per nome, sorridenti e gentili.

La Cura è un cerotto con i teschi sul ginocchio di tua figlia, perché fa meno male se il cerotto è bello, è far dipingere il muro esterno di casa insieme ai suoi amici, vederli correre su file di balloni di fieno appena fatti aiutandoli a salire (anche se tu hai l’allergia), è il parchetto vicino a casa e i pantaloni verdi di erba.

Abbracciare chi soffre, lottare per ripristinare la serenità della comunità, agire invece di stare a guardare…anche questo è cura.

Dipingere un mobile per donare nuova vita, piuttosto che mandarlo in discarica, perché quasi tutto e tutti meritano una seconda possibilità.

Mi piace prendermi cura. Amo che le persone accanto a me stiano bene, siano serene e al sicuro. Sono una curatrice nata, è nel mio DNA.

Spesso, curo gli altri e mi dimentico di prendermi cura di me.

È proprio quello che mi fa stare bene? Direi di sì.

La Cura non sempre viene ricambiata, ma nel mio caso…quasi sempre.

Sono fortunata ad essere amata, sostenuta, capita.

Ma penso che la fortuna c’entri poco: se dai senza chiedere nulla in cambio, metti in moto forze benevole, scateni un qualcosa di bello, di magico.

La Cura è amore, comprensione, gratitudine per piccoli gesti.

Sono Tamarra…ma resto umile!

Sì, sono una tamarra.

Non è una cosa grave, né infettiva, ma lo sono.

Nata e cresciuta in un paese della prima cintura di Torino, il meccanismo della periferia l’ho studiato bene, vissuto a pieno in tutto il suo splendore.

La vita in periferia negli anni ’90 non era per nulla facile, soprattutto per una come me che era “diversa”: non vestivo come gli altri, non ascoltavo musica da radio, non frequentavo le discoteche, ma prendevo sempre lo stesso pullman per tornare a casa.

Questo era un guaio.

Sì, perché i gruppetti di ragazzini come me non hanno mai accettato ciò che non era omologato, uguale a loro.

Ho subìto minacce, prese in giro, a me e ai miei amici, ma anche loro vivevano in altre periferie della città quindi, eravamo “allenati” a non rispondere ed a ignorare.

Lo scontro alcune volte era inevitabile: ho visto risse di quartiere come “i guerrieri della notte” ma molto meno violente, liti partite da uno sguardo e finite a bere tutti insieme, amicizie che durano da tutta la vita.

Stare a zonzo mi è sempre piaciuto moltissimo, e così ti togli un sacco di paure dell’ignoto, del diverso, uscendo dal tuo mondo protetto.

La periferia è un micromondo, dove culture, etnie, dialetti, linguaggi, slang, si fondono e convivono quasi pacificamente.

Essere tamarri è un modo di vivere, uno stile unico.

Ciò che ti rimane più di tutto quando vai via dal quartiere è l’atteggiamento: un po’ di sfida verso tutti, diffidente, e decisamente “scantato”.

Certo, con gli anni ho perso moltissimo di quell’atteggiamento di sfida, di guardarsi costantemente alle spalle.

Può non piacerti, alcune volte farti inorridire, ma riconosci subito uno “di zona”.

…”sulla mia panchina ci sto comoda, manco fosse una poltrona”… (cit.)

Poi, c’è chi in periferia c’è rimasto e vive tutt’ora: il mio paese non è più piccolo come quando ero adolescente, le porte che prima, si lasciavano aperte, perché ci si conosceva tutti nel palazzo, ora vengono chiuse a doppia mandata e con antifurti satellitari. La mia notte serena, la strada che facevo per tornare a casa con il walkman nelle orecchie esiste ancora ma le facce sono diverse: un po’ trasferiti, qualcuno morto, altri in galera.

La “piazza rossa” (chiamata così perché dall’alto si vedeva chiaramente la forma di falce e martello) dove passavamo pomeriggi, sere, è stata smantellata da quasi vent’anni. Si era scelto un simbolo forte perché era il paese dormitorio di chi lavorava alla Fiat, per il famoso potere operaio di anni ruggenti di manifestazioni e proteste.

Foto presa dal web

Mio nonno ha fatto 34 anni di catena di montaggio, proprio alla Fiat Mirafiori…so bene di cosa parlo, di quegli anni, della lotta, di quanto fosse difficile essere immigrato e operaio.

La memoria resta: i giardinetti, le panchine, le facce, le emozioni, la libertà conquistata di essere ciò che sarei stata…ciò che sono.

Non occorre “baciarmi l’anello”, ma…

In alcune situazioni non bado a ciò che faccio…lo faccio.

Punto.

Per il bene comune, si deve obbligatoriamente mettere da parte le cagate interpersonali e lavorare insieme.

C’è sempre una persona che si accolla un carico di lavoro più degli altri, e lo fa per una sua propensione, o attitudine a gestire le situazioni critiche: quasi un leader naturale.

Mi piace affrontare i problemi a testa alta, e farlo nel minor tempo possibile. Spesso e volentieri ci metto la faccia, mi offro e dò disponibilità confrontandomi con tutti se reputo che dia una giusta causa.

Bisogna sempre, quando ci si rapporta con alte cariche e no, mantenere un comportamento consono e rispettoso, per ottenere il maggior risultato.

Molte volte, la rabbia acceca e fa più danni che altro.

Il mio carattere è abbastanza controllabile: ho imparato negli anni a non sbroccare, a lasciar parlare, a confrontarmi in maniera civile.

Da più giovane ero molto impulsiva e prendevo fuoco in un attimo poi, con l’esperienza ho capito il meccanismo per farsi ascoltare, da chiunque, senza litigare: alcune volte è impossibile avere un riscontro positivo per “la sordità selettiva” dell’interlocutore, ma nella maggior parte dei casi ci si capisce.

Sto portando avanti un progetto con genitori della classe del mio piccolo Seme per cercare di ripristinare un ambiente felice e spensierato dentro la scuola.

Non è tutto scontato e facile, ma con la Santa pazienza qualche riscontro positivo lo stiamo ottenendo, perché abbiamo trovato persone attente e ricettive ad ascoltare le nostre preoccupazioni.

Ora, senza alcun problema, mi sono occupata di scrivere e parlare, con il benestare di tutti pur non essendo rappresentante.

Non serve “baciami l’anello” ma almeno un cazzo di “grazie!” mi sarebbe piaciuto da parte di alcuni genitori.

Il minimo sindacale, eh!

Invece solo rimostranze, sentito dire, e cose riportate senza alcuna certezza di fonte, oltretutto fuori dalla scuola stile pollaio.

Mi piacerebbe dire a queste signore di farlo loro, di metterci faccia e cuore, ore del loro tempo, sentire questo e quello, informarsi, e parlare, parlare.

Le basi di ciò che stiamo facendo serviranno per dare respiro e tranquillità a tutta la scuola, ai bimbi…anche ai loro.

Bisogna necessariamente schierarsi, perché l’acqua cheta non piace a nessuno: non è necessario salire a cavallo delle barricate, ma perché le cose in questo momento nel tuo oticello funzionano tutte, non disdegnare la comunità e il bene comune rimanendo neutra, con un due piedi in una scarpa.

È un attimo che la ruota gira nel senso opposto e un uragano centri il tuo orticello.

Solo un’azione coesa e unita può avere un futuro, una soluzione definitiva e duratura.

“Chi combatte rischia di perdere, ma chi non combatte ha già perso”

Bertolt Brecht